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Il giornalismo come cane da riporto

20 settembre 2013

Un articolo di Chiara Tadini sulla natura del giornalismo italiano, che proprio non riesce ad essere – salvo rare, circoscritte eccezioni, peraltro incapaci di fare scuola – quel “cane da guardia” (watchdog) del potere tipico della tradizione anglosassone. Chiara Tadini porta alcuni esempi relativi al tema della “sicurezza”, che è stato uno dei grandi diversivi imposti dal potere politico in questi anni.

La tradizione professionale pesa più di quanto non si pensi. In Italia il giornalismo è nato come derivazione del potere, cioè come strumento di raccolta del consenso. Generazioni di giornalisti sono così cresciute in un clima di cautela e di autocensura, sono state abituate a considerare come questioni importanti quelle inserite in agenda dai poteri costituiti. Nelle redazioni si preferisce lo schieramento a fianco o vicino a questa o quella forza politica all’idea che il potere, a prescindere dal suo colore, sia meritevole d’essere trattato con diffidenza e rigore analitico.

In aggiunta c’è la questione degli assetti proprietari. I grandi media italiani sono controllati dai grandi gruppi imprenditoriali, bancari e assicurativi del paese: che informazioni possono fare con padroni del genere? Perciò il giornalismo italiano non è mai nemmeno riuscito ad anticipare alcuno dei grandi scandali del paese: pensiamo – negli ultimi anni – a Tangentopoli o alle vicende Parmalat, Ilva, Monte dei Paschi. Alla fine che cosa resta? La cosiddetta informazione di nicchia. Il buon giornalismo esiste, ma bisogna cercarlo negli anfratti di un sistema mediatico espressione dei poteri politici, economici e finanziari.

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