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Cara Europa, la tua (la nostra) è una crisi di civiltà

1 marzo 2023

C’è una funesta profezia che incombe sulla nostra Europa. È una regola non scritta, ma ben percepibile, secondo la quale l’Unione di Bruxelles finisce sempre per seguire l’esempio, amplificandone gli effetti, di quegli stati membri che deragliano dalla “retta via” democratica e federalista e inizialmente sono indicati come reprobi, salvo – appunto – scoprire che erano in realtà degli anticipatori.

È successo con l’Ungheria di Orban che perseguitava rom e altre minoranze, che alzava muri contro invasioni migratorie immaginarie, che spostava il baricentro politico verso la destra estrema nazionalista e xenofoba, che teorizzava – da principio suscitando scandalo e sconcerto – un’inedita filosofia politica detta “democrazia illiberale”. È successo, ancora, con la Polonia governata dalla destra nazionalista e integralista cattolica, che ha rilanciato l’antico motto “Dio, patria e famiglia” per mettere in discussione alcune delle conquiste della civiltà europea del ‘900, come i diritti civili fondamentali, la libertà riproduttiva, il pluralismo politico e religioso. Budapest e Varsavia hanno fatto presto scuola, le destre estreme sono cresciute nel resto d’Europa, hanno condizionato l’opinione pubblica e spesso hanno assunto ruoli di governo, trasformando l’Unione dal suo interno: nella sua cultura, nel suo sentire comune, nelle sue prospettive di senso.

Da reprobi a modelli: oggi l’Europa è una fortezza circondata da muri e fili spinati, dotata di forze speciali alle frontiere impegnate a respingere – spesso con metodi brutali, anche illegali, al limite e a volte anche oltre la pratica della tortura – cittadini extra europei che hanno il solo torto di avere abbandonato i propri paesi – spesso impoveriti, distrutti da guerre e carestie – in cerca di condizioni migliori di vita. Si sostiene, sfidando il buon senso, il ridicolo e anche la decenza, che occorre “difendere i confini” e lo si sostiene evocando nel linguaggio, nella postura, nel richiamo al passato, un immaginario militaresco, come se a sud della Sicilia, al confine greco con la Turchia, nei boschi fra Bosnia e Croazia e nei molti altri luoghi di passaggio (e di morte), inclusi i nostri passi alpini, si presentassero soldati in armi, invasori decisi a conquistare territori, a minacciare la vita dei cittadini europei e le loro istituzioni.

È la retorica cresciuta a dismisura di anno di anno, di presunta emergenza in presunta emergenza, tracimando dal lessico roboante e stralunato dei primi gruppi e leader politici xenofobi, cinici imprenditori della paura, ai documenti ufficiali di pressoché tutte le cancellerie e ora anche dell’Unione. È una grande menzogna eppure detta legge, produce norme e praticissimi effetti: confini blindati, migliaia di vite sacrificate. È l’Europa che rinnega sé stessa, i valori sui quali fu fondata alla fine della “seconda carneficina mondiale”: l’idea che tutte le vite valgono, che nessuna persona può essere sacrificata, cioè annientata, per banali questioni burocratiche come il possesso di questo o quel passaporto.

Georg Grosz, “Strada pericolosa” (1918)

Il quadro si è imbarbarito con l’ultima guerra europea, in Ucraina, nata in forma strisciante già nel 2014, poi esplosa l’anno scorso, con l’invasione russa del 24 febbraio. L’Europa, fin dai primi giorni, ha scelto di combattere la guerra con la guerra, rinunciando a un proprio ruolo di mediazione e affidando a Stati Uniti e Nato la regìa non solo militare, ma anche politica, del conflitto, col risultato di alimentare un clima di furioso bellicismo nella totale assenza di prospettive. I proclami dei leader europei oggi sono a senso unico: vincere la guerra, sconfiggere la Russia, ma non c’è pensiero dietro tali affermazioni; manca una spiegazione del concetto di “vittoria” e del prezzo che si è disposti a pagare per raggiungerla (forse un allargamento del conflitto, centinaia di migliaia di morti, l’uso delle armi nucleari: nessuno si sente in obbligo di dare spiegazioni); manca – ed è gravissimo – anche una visione del possibile dopo guerra, del tipo di Europa che sopravviverà al conflitto, dei rapporti che si avranno col vicino russo, che sarà ancora là, ai confini orientali, ma in un clima di odio, di revanscismo, di minacce sempre incombenti. Si coltiva l’illusione della guerra come soluzione taumaturgica di conflitti ideologici e geopolitici, ignorando la storia, la catastrofica esperienza accumulata negli ultimi decenni fra l’Afghanistan e l’Iraq, la Siria e la Libia.

L’Europa è nata per prevenire le guerre e per neutralizzare la malapianta del nazionalismo, che fu all’origine delle due carneficine mondiali del ‘900, ma sembra avere dimenticato tutto: sono i nazionalismi – quello ucraino, quello polacco, quelli dei paesi baltici – a determinare oggi la rotta dell’Unione ed è un paradosso: è l’Europa che nega sé stessa.

E la barbarie cresce: si alzano muri fisici sul confine finlandese; l’odio e l’astio per il regime di Putin si estendono all’intera popolazione russa e all’intera storia culturale di quel grande paese, una cultura da sempre cara agli europei; si muore in massa ai confini, tentando di entrare nell’Unione del benessere e della salvezza, e l’Europa parla ancora una volta con la voce della destra radicale, stavolta italiana: non devono partire, dicono i nostri ministri, vanno fermati prima, non importa il modo, lasciando intendere che le vite degli altri sono vite meno importanti delle nostre, vite senza il diritto di avere diritti, vite di scarto; e come dimenticare, nelle prime settimane dopo l’invasione russa, il contrasto feroce fra le braccia aperte riservate – giustamente – alle decine, centinaia di migliaia di profughi ucraini in fuga dalla guerra e l’odioso, disumano trattamento riservato a poche decine di altri profughi – asiatici e africani – respinti alla frontiera polacca con la Bielorussia e abbandonati senza cure nei boschi, nel gelo, negli stenti. Un abisso di abiezione.

Questa è l’Europa reale: guidata dai rancori nazionalisti, dalla rabbia xenofoba, dalla foga post democratica dei suoi Stati membri più destrorsi, più cinici, più arretrati. Le élite transnazionali, i burocrati di Bruxelles, i forbiti politici che guidano l’Unione hanno ceduto il passo, frastornati dall’onda violenta, bellicista e reazionaria che sta travolgendo il continente; e intanto cresce il distacco fra i cittadini e le istituzioni: quasi la metà della popolazione – in molti paesi – nemmeno va più a votare, ma neanche questo sembra scuotere i potenti: il consenso attivo non è considerato importante, basta quello passivo, basta che un parlamento si formi, che un governo di insedi, un governo purchessia, destra o sinistra non importa, ché sulle questioni chiave c’è convergenza di opinioni, o almeno c’è un’inerzia che coinvolge parimenti gli uni e gli altri.

Non c’è da farsi illusioni: l’Europa sta precipitando nel vortice di un nuovo apartheid e di un sistema che di democratico conserva la forma ma sempre meno la sostanza. Un apartheid di fatto perché chiude la porta in faccia a chi viene da fuori e declassa, inevitabilmente, anche quelli “che ce l’hanno fatta”, accettati nell’Unione non perché esseri umani dotati di piena dignità e diritti, ma perché “utili” come lavoratori servili, negli impieghi giudicati di basso rango che gli autoctoni europei rifiutano. È destinata a radicarsi nel senso comune l’immaginaria identità europea “bianca e cristiana”, alimentata negli anni scorsi da una forte ondata islamofoba e da retrive e violente politiche contro l’immigrazione.

Viviamo oggi in un’Europa che ripudia le sue radici federaliste e umaniste, un’Europa accartocciata su sé stessa e incapace di immaginare un futuro degno delle sue premesse esistenziali, quelle definite nei manifesti e dei progetti delle origini; un’Europa che può salvarsi, o almeno cominciare a ricucire le molte ferite che l’affliggono, solo guardando sé stessa con onestà, ammettendo di vivere una profonda crisi di identità, che è anche una crisi di civiltà.

Noi cittadini europei siamo parte – e quindi corresponsabili – di questa crisi e nel tracollo delle élite politiche, nel conformismo degli intellettuali, nell’appiattimento del sistema mediatico sui poteri del momento, nell’infuriare di sentimenti d’odio e volontà di guerra senza fine, tocca probabilmente a noi fare il primo passo, scuoterci dal nostro torpore e agire, agire, agire per rivendicare un’altra idea di Europa e di mondo. Siamo forse vicini all’ultima chiamata. L’ordine attuale delle cose è odioso, pericoloso, profondamente ingiusto e ormai insopportabile.

Pestaggi e torture. Santa Maria Capua a Vetere, provincia di Genova G8

16 febbraio 2023

Che impressione, leggere “Pestaggio di Stato” di Nello Trocchia (editore Laterza) avendo in mente la notte della Diaz e le inchieste, i processi seguiti alle violenze di stato al G8 genovese del 2001. Quante storie familiari, quante sinistre somiglianze. La scena del libro di Trocchia è nota: carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua a Vetere, 6 aprile 2020. Un reparto speciale di polizia penitenziaria interviene – ufficialmente – per sedare una violenta rivolta dei detenuti, originata dalle proteste contro le misure prese dalla direzione per “limitare” il rischio di diffusione del contagio da coronavirus. In realtà nel carcere non c’è alcuna rivolta in corso e l’intervento può essere tranquillamente classificato come una spedizione punitiva. È la prima assonanza con la notte della Diaz: il blitz nel 2001 fu giustificato con la necessità di arrestare fantomatici teppisti appartenenti al Black Bloc e si disse che gli occupanti della scuola si opposero con violenza alla perquisizione, obbligando gli agenti a reagire, ma erano false l’una e l’altra affermazione; si trattò, né più né meno, di una spedizione punitiva, appunto, chiusa con 93 arresti privi di qualsivoglia fondamento giuridico.

Nel 2020 le prime notizie di quanto avvenuto in carcere furono diffuse, via social, da familiari dei detenuti e riprese dai locali Garanti delle persone private della libertà; Nello Trocchia, sul quotidiano “Domani”, fu il primo a scriverne, uno scoop corroborato da testimonianze confidenziali. Scoop nello scoop, tempo dopo, la rivelazione dei filmati ripresi dalle telecamere interne, provvidenzialmente sequestrate dal magistrato prima che qualcuno si ricordasse di cancellare le registrazioni. I filmati – inequivocabili – confermano le violenze denunciate dai detenuti ai loro familiari: l’intervento dei 283 agenti di polizia penitenziaria è una spedizione punitiva in piena regola, fatta di “colluttazioni unilaterali”, per citare la descrizione delle violenze alla Diaz offerta da uno dei comandanti del reparto entrato per primo nella scuola genovese, ma anche evocativa delle violenze praticate e del terrore istituito nel 2001 nella caserma di polizia di Bolzaneto. Alcuni filmati di Santa Maria Capua a Vetere, per esempio quelli in cui si vedono i detenuti, in un lungo corridoio, passare fra due file di agenti per essere umiliati, insultati e colpiti con manganelli, pugni, sputi, calci, potrebbero essere sovrapposti alla lettura delle testimonianze dei torturati di Bolzaneto e difficilmente ci si accorgerebbe che immagini e letture si riferiscono a luoghi e tempi diversi. A Bolzaneto questa tecnica di pestaggio era chiamata dagli agenti “Comitato di accoglienza”.

La reale natura dell’intervento nel carcere “Francesco Uccella” è stata coperta, come a Genova, con omissioni, allusioni e palesi menzogne; non sono mancati, nemmeno a Santa Maria Capua a Vetere, dettagli quasi surreali. Se alla Diaz abbiamo avuto l’agente accoltellato con arresto del coltello ma non dell’accoltellatore, misteriosamente sfuggito alla cattura (era tutto falso, ovviamente), e le bombe molotov possedute collettivamente da 93 persone, ma in realtà introdotte nella scuola dalla stessa polizia; nel caso del carcere campano si è detto che i detenuti in rivolta avevano preparato olio bollente (!) da lanciare sugli agenti… Più o meno come in certe vignette della Settimana enigmistica.

La storia raccontata da Nello Trocchia è dettagliata e angosciante: un detenuto, Lamine Hakimi, è morto nemmeno trentenne un mese dopo la “spedizione” in una cella d’isolamento; un decesso, scrive Trocchia, tutto da chiarire, “originato dall’assunzione di un mix di oppiacei, su un corpo violato, su una mente labile, su un ragazzo schernito e umiliato. Ma come fa un detenuto in isolamento a morire per un mix di oppiacei?”, si chiede il giornalista, lasciando ai giudici il compito di accertare fatti ed eventuali responsabilità sul tragico episodio.

La vicenda di Santa Maria Capua a Vetere è gravissima e riguarda l’intera collettività. Tali e tanti sono stati gli abusi, tali e tante le falsità, che le vicende raccontate in “Pestaggio di Stato” sono da considerare un attentato allo stato di diritto, al principio di dignità della persona, alla credibilità delle forze dell’ordine e per estensione delle stesse istituzioni democratiche.

Sui fatti avvenuti il 6 aprile 2020 è in corso un processo con 105 agenti imputati, accusati a vario titolo di una serie di reati, dal falso alle lesioni, dalla calunnia al crimine principe di questa fattispecie, la tortura, punita dal nostro ordinamento solo dal 2017. Toccherà alla Corte d’assise ricostruire i fatti e valutare le singole responsabilità, ma già incombono dei rischi, ossia la “improcedibilità” prevista dalla riforma Cartabia (massimo due anni per celebrare il processo di appello, quando a Napoli la media attuale è di quattro anni) e anche la prescrizione, visto che la legge del 2017 – lo fa notare Enrico Zucca, pm nel processo Diaz, citato da Trocchia – non accolse il principio della imprescrittibilità della tortura, per quanto richiesto dalle convenzioni internazionali. Vedremo come andrà a finire.

Intanto, a noi, da cittadini che abbiamo visto o conosciamo i fatti di Genova del 2001, e quindi non dimentichiamo i precedenti, restano le domande più inquietanti. Ci chiediamo: come si trasmettono fra gli agenti le conoscenze sulle pratiche di pestaggio e tortura, visto che si ripetono tali e quali a vent’anni di distanza? Che tipo di lezione hanno appreso le nostre forze dell’ordine dopo i documentati disastri – cioè una lunga serie di abusi intollerabili – avvenuti nel 2001? Perché il falso e la menzogna, anche negli atti ufficiali, accompagnano regolarmente gli errori e gli abusi che arrivano alla conoscenza dell’opinione pubblica? Perché alle denunce iniziali non è seguita una seria iniziativa culturale e politica per pretendere trasparenza? Perché lo Stato non avvia un’operazione di verifica dello stato di salute democratica – nella formazione, nella cultura professionale, nel rapporto col resto della società – delle nostre forze dell’ordine?

La fiaccola della memoria

28 gennaio 2023

Liliana Segre ha osservato con amarezza che la memoria della Shoah sta svanendo, che non fa presa nella società; la senatrice a vita teme addirittura che sarà presto appena una riga nei libri di storia. Possibile, ma paradossale, in tempi che sovrabbondano di “celebrazioni” e occasioni per “fare memoria”. Gli stessi vertici politici dello stato, dal presidente della repubblica in giù, in questi giorni si sono fatti sentire con moniti solenni e alte affermazioni; lo sforzo delle tv pubbliche e private, con film e approfondimenti, non è affatto mancato, e così quello della stampa quotidiana e basta entrare in una libreria per notare quanto la produzione editoriale sia costante attorno ai temi cardine della storia del ‘900: dalla Shoah ai totalitarismi alla lotta di resistenza.

Dunque, qual è il problema? Perché la memoria, nonostante tutto ciò, sembra in decadenza? Perché i princìpi fondativi delle democrazie europee, quindi un preciso progetto di civilizzazione – per aggiungere un elemento al discorso di Liliana Segre – sono così in declino nella coscienza e nella cultura degli italiani e degli altri europei?


Il punto è la credibilità. Le tragedie del ‘900, ma anche le straordinarie lotte sociali e popolari di quel secolo, sono da considerare un monito e un esempio, perciò è importante conoscerle, studiarle, farle proprie. La memoria serve a questo: a rendere ciascuno di noi un cittadino più consapevole e la collettività cosciente degli errori ma anche delle grandezze del passato. Il calendario civile, con le varie feste e celebrazioni riconosciute, è uno strumento di questa presa di coscienza, purché – ecco lo snodo fatale – non si tratti di omaggi formali, affermazioni occasionali, momenti di conoscenza da mettere subito in archivio senza conseguenza alcuna.

Le politiche della memoria sono sottoposte per loro natura a un rischio incombente: la ritualizzazione, l’uso strumentale, la banalizzazione. Se le retoriche della memoria – i discorsi che si fanno nel Giorno della memoria, il 25 aprile, il 2 giugno e così via – si distaccano troppo dalla realtà, se l’omaggio ai princìpi costituzionali, se i valori e le prospettive scaturiti dall’orrore per la Shoah o dall’ammirazione per la resistenza non vivono nella realtà, se chi se ne fa interprete non dimostra “sul campo”, ogni giorno, attraverso le proprie scelte, la sua adesione autentica a quei valori e quei principii, ecco che la retorica suona falsa, asettica, superata.


E’ quel che sta accadendo, e non da oggi, sotto i nostri occhi. I traumi, gli orrori ma anche le glorie della prima metà del ‘900 hanno portato a ciò che di più prezioso abbiamo: le costituzioni democratiche, la nuova impalcatura delle relazioni internazionali, un sistema codificato di affermazione dei diritti umani fondamentali. Siamo usciti dalla seconda guerra mondiale stabilendo finalmente e senza esitazioni che tutte le vite valgono – un principio che era stato sepolto dalle politiche razziste e eugenetiche di fascismo e nazismo -, approvando una solenne Dichiarazione dei diritti umani e costruendo un’impalcatura di enti sovanazionali – in testa l’Onu – con il preciso scopo di contenere le tentazioni infernali dei nazionalismi e di prevenire i conflitti armati, dopo due guerre mondiali che avevano trasformato il suolo europeo in un immenso cimitero all’aperto e disseminato il sottosuolo di innumerevoli fosse comuni.


Oggi, ahinoi, succede che si ricordino la Shoah, ma anche la resistenza, i nostri valori costituzionali e le stesse regole del diritto internazionali, mentre pratichiamo l’opposto. E’ questo il punto. L’Europa nata per combattere i nazionalismi e quindi abolire i confini è oggi una fortezza circondata da fitte reti di affilatissimi fili spinati e non sa più parlare la lingua della cooperazione e della pacificazione; il diritto internazionale, la diplomazia, il castello di enti e trattati concepiti per evitare i conflitti armati sono stati accantonati e screditati uno dopo l’altro e oggi siamo sottoposti a una ventata bellicista che alimenta, anziché sedare, la guerra in corso sul suolo europeo, nell’infelice terra ucraina, sottoposta lungo tutto il ‘900 a ferite forse senza pari in Europa; il principio cardine che ispira le nostre costituzioni e che deriva direttamente dalla sconvolgente esperienza della Shoah – “tutte le vote contano” – non vive più nella quotidianità dello spazio pubblico, è anzi platealmente calpestato nel mare Mediterraneo, ai confini terrestri dell’Unione, nei campi di concentramento in Libia, Turchia e altri paesi finanziati con le imposte dei cittadini europei; gli stessi valori della resistenza e dell’antifascismo – l’aspirazione all’uguaglianza, alla giustizia sociale – sono tramontati nell’ideologia e nella pratica delle maggiori forze politiche democratiche.


Ciò che nel discorso pubblico ufficiale è definito memoria, dunque, suona quasi sempre falso; chi parla di antifascismo, di diritti umani, di aspirazione alla pace – ministri, capi di stato, ma anche molti “esperti” e intellettuali – non risulta credibile, perché pare non credere a ciò che afferma, visto che non agisce in modo conseguente. Un’Europa fedele ai suoi princìpi oggi dovrebbe lottare per fermare i conflitti in corso con gli strumenti della diplomazia e dell’interposizione; dovrebbe salvare, accogliere, tutelare e non respingere o lasciare annegare i profughi che si spingono fino ai suoi confini; dovrebbe contrastare i nazionalismi invece di alimentarli.


Per essere creduti, occorre essere credibili. Non è il caso delle attuali classi dirigenti europee, sempre più simili ai leader “sonnambuli” che spinsero l’Europa fino all’abisso nella prima metà del ‘900. Tocca quindi ad altre persone, ad altre organizzazioni, a chi vive e pratica – oggi controcorrente – i valori più alti scaturiti dalle tragedie e dalle glorie del secolo scorso, tenere alta la fiaccola della memoria e lottare ancora.


Lorenzo Guadagnucci, 28 gennaio 2023

Libri / Il “Capitalismo carnivoro” senza futuro

19 gennaio 2023

Il titolo – Capitalismo carnivoro – è coraggioso e preciso. Preciso perché Francesca Grazioli, nel suo libro edito dal Saggiatore, indaga la filiera di produzione della carne e non fatica a individuarne i tratti salienti: lo sfruttamento della vita animale – e anche di quella umana, sia pure in altre forme – come asse portante, la logica del profitto spinta fino alle sue più estreme conseguenze, l’impressionante concentrazione proprietaria in poche mani, il disinteresse per ciò che gli economisti pudicamente chiamano esternalità negative, ossia l’abitudine ad agire distruggendo e inquinando senza alcun rimorso. Coraggioso perché la sola evocazione della parola capitalismo in Italia suscita irritazione, specie se del capitalismo si parla in termini necessariamente e fortemente critici, come in questo volume.

E’ noto che l’ideologia neoliberista, al momento dominante nonostante i disastri compiuti e la sua assenza di prospettive di lungo ma ormai anche di medio se non breve periodo, ha la pretesa di presentarsi come l’ordine naturale delle cose e di tacciare come “ideologiche” ed “estremistiche” le posizioni di chi osa mettere in discussione, fin nelle sue radici – ideologiche, appunto – lo status quo.

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Il potere di “lasciar morire” (anche la Costituzione)

1 gennaio 2023

Michel Foucault, parlando del “biopotere”, ha introdotto le nozioni del “lasciar vivere” e del “lasciar morire” come forme contemporanee del potere, nella sua più pura – più cruda – manifestazione. Bisogna tornare a Foucault per valutare il senso delle recenti misure introdotte dal governo Meloni in materia di soccorso in mare.

Due i punti principali, in un incrocio fra provvedimenti formali e pratica concreta: l’indicazione di “porti sicuri”, per le navi di soccorso con naufraghi a bordo, anche molto lontano dalle zone di operazione (vedi gli sbarchi a Ravenna e Livorno); l’obbligo di eseguire un unico intervento di soccorso e di procedere immediatamente verso il porto di sbarco, disinteressandosi – pare di capire – di eventuali altre imbarcazioni in difficoltà presenti nella propria zona. Il decreto, inoltre, prevede anche il divieto di trasbordo dei naufraghi da un’imbarcazione a un’altra e l’obbligo di presentare l’eventuale richiesta di asilo a bordo della nave.


L’obiettivo delle misure, combinate fra loro, è quello di rallentare e limitare le operazioni di soccorso, con la pretesa che le navi delle Ong – a queste sono rivolte le misure, con annesse multe e possibilità di fermo e sequestro in caso di infrazioni – disattendano le “norme del mare” che impongono di salvare i naufraghi a prescindere da qualsiasi altra considerazione e di portarli nel porto sicuro più vicino.


Ridurre e ostacolare i soccorsi: è una manifestazione di potere che di fatto – se osservata – porterebbe ad allargare il “lasciar morire” (gli interventi non fatti per i viaggi più lunghi verso porti lontani e per il limite dell’unico salvataggio per volta) e a ridurre di conseguenza il “lasciar vivere”, che in questo caso coincide con il soccorso in mare garantito dalle Ong.


A questo si è ridotta la nostra democrazia, che pure è nata affermando la pari dignità di tutte le vite umane, un principio che via via è stato destrutturato. La norma sui soccorsi in mare ha suscitato le proteste delle Ong – che hanno, in alcuni casi, reclamato la necessità di disobbedire – e da esponenti del mondo cattolico: nulla di significativo è venuto dalle opposizioni parlamentari, non una parola – né sul provvedimento, né sullo scandalo del Mediterraneo trasformato nel più grande cimitero d’Europa – nel suo discorso di fine anno dal presidente Mattarella. L’Europa a sua volta osserva e tace, cioè acconsente.


Sono passati 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione e stiamo assistendo alla progressiva demolizione dei suoi presupposti culturali, filosofici, politici. E’ inaccettabile e occorre ribellarsi.

Farsi classe dirigente, la lezione Gkn

21 novembre 2022

Dario Nardella non somiglia certo a Giorgio La Pira -non ne possiede lo spessore politico, la capacità immaginativa, né l’afflato religioso- ma va dato atto al sindaco di Firenze e alla sua maggioranza in Consiglio comunale di avere capito che il Collettivo di fabbrica della ex Gkn si sta battendo dalla parte giusta e con buoni argomenti. Perciò Nardella e il presidente del Consiglio comunale fiorentino, Luca Milani, hanno assecondato la clamorosa protesta operaia, col Salone de’ Dugento occupato giorno e notte, accettando in qualche modo l’atto di accusa rivolto anche verso di loro.

Le classi dirigenti, dicono da tempo e hanno ribadito gli operai ex Gkn, stanno fallendo, non sono all’altezza del loro compito e stanno abbandonando alla loro sorte non solo quattrocento operai messi improvvisamente alla porta nell’estate del 2021, ma un intero “sistema” di relazioni industriali; si stanno sgretolando -dicono ancora- nell’inerzia delle istituzioni, i residui diritti dei lavoratori e più in generale l’idea stessa che la libera imprenditoria debba svolgere una funzione sociale.

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Perché proibiscono le feste popolari (i “rave party”)

4 novembre 2022

Le parole – specie se poco conosciute – a volte confondono le idee. Dici “rave party” e pensi a droghe e overdose, a sbandati di ogni tipo, a pericoli e violenze, a losche trame di misteriosi organizzatori, e così una legge che li criminalizza pare quanto meno ragionevole, se non addirittura necessaria.

Se però chiamiamo quegli stessi eventi “feste popolari autogestite e gratuite” o “moderni riti collettivi”, come molti etnografi consigliano, ecco che lo scenario cambia e l’idea di intervenire sul codice penale per impedire tali feste appare sotto un’altra luce. (…)

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#freeAssange – Vergogne e miserie di casa nostra

13 ottobre 2022

Dicono che Assange non è un giornalista. Che è una spia. Che ha messo a repentaglio la sicurezza di molti agenti dell’intelligence. Che ha favorito la Russia. Che è antipatico, incontrollabile, irragionevole; forse anche uno stupratore. Dicono che è un criminale e così lo trattano. Lo hanno distrutto. Julian Assange è in carcere in Inghilterra da tre anni, dopo sette anni trascorsi segregato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra;    aspetta d’essere estradato negli Stati Uniti, dove gli apriranno le porte del carcere: dicono che    non andrà sulla sedia elettrica, ma che subirà una pesante condanna, forse addirittura 175 anni di carcere: una pena surreale, degna – anzi indegna – di un caso che non ha nulla di ordinario.

Assange non è un giornalista nel senso classico della professione, ma è l’autore del più importante “colpo” giornalistico dell’ultimo secolo. Con la sua organizzazione, Wikileaks, ha svelato segreti inconfessabili, in testa (ma non solo) i crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan e Iraq da Stati Uniti e paesi alleati. Dapprincipio è stato sostenuto dalla grande stampa internazionale, alla quale si rivolse per pubblicare i documenti più clamorosi, poi è stato abbandonato e isolato. I media più influenti, le “grandi” firme del giornalismo italiano e internazionale lo hanno disconosciuto con mille scuse, oltretutto inconsistenti, come documentato in un importante libro (“Il potere segreto”, editore Chiarelettere) dalla giornalista italiana Stefania Maurizi. Assange è un perseguitato politico e la sua vicenda mostra in controluce le debolezze e le ipocrisie di un Occidente che afferma valori irrinunciabili e grandiosi princìpi – la supremazia dei diritti umani, la democrazia sostanziale, la piena libertà d’espressione, l’inviolabile stato di diritto – ma sempre meno li pratica.

Assange e Wikileaks hanno messo a nudo la cruda realtà della guerra (infinita) al terrorismo, cominciata con slancio retorico da liberatori, ma portata avanti con la brutalità di ogni guerra moderna, che è sempre – sempre – guerra primariamente contro le popolazioni civili. Le immagini, i file audio, i documenti rivelati da Wikileaks hanno strappato il velo protettivo che ha reso opache le imprese belliche occidentali degli anni Duemila. Oggi sappiamo che non c’è stata alcuna liberazione, alcuna esportazione della democrazia, bensì guerre punitive e di occupazione condotte senza porsi limiti: né la tortura, né gli omicidi mirati, né le rappresaglie, né l’eliminazione fisica senza motivo di persone comuni. Tutto provato. Assange paga per questo, così come stanno pagando altri “traditori” della narrazione occidentale, quali Chelsea Manning e Edward Snowden, a loro volta cittadini e attivisti che non hanno osservato la consegna del silenzio e dell’acquiescenza.

E c’è dell’altro. Julian Assange, nonostante sia stato messo a tacere, è tuttora un faro puntato, con la sua stessa esistenza, sulle miserie del giornalismo contemporaneo. La mancata difesa delle sue ragioni e del suo ruolo storico è un imperdonabile atto di omissione. Non importa se Wikileaks è entrata in conflitto con le testate d’informazione ufficiali, se Assange a un certo punto non è parso più affidabile ai cronisti: la sua azione in favore della libertà d’informazione e    del diritto dei cittadini di sapere resta un punto fermo nella storia del giornalismo e nella storia politica del nostro tempo e perciò il fondatore di Wikileaks andava difeso in tutte le sedi, tempestivamente.

Niente del genere è avvenuto e ora Assange è in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti, dove sarà processato per    le ragioni più sbagliate di questo mondo, in un paese che un tempo si vantava d’essere la patria del giornalismo indipendente e ora perseguita chi svela scomode verità sul potere: è una nemesi storica che molto dice sui tempi che viviamo. Julian Assange è trattato come un nemico e questo deve darci da pensare: vuol dire che stiamo vivendo una stagione di guerra permanente, combattuta dal potere anche senz’armi, usando altre subdole forme: nella società civile, nel mondo dell’informazione, ovunque si manifestino germi di rifiuto e contestazione. Perciò siamo tutte e tutti in pericolo. Il 15 ottobre si tiene una ventiquattr’ore di lotta in favore di Julian Assange e per la sua liberazione. Anche noi, nel nostro piccolo, gridiamo: #freeAssange.

Lorenzo Guadagnucci dal sito di Perunaltracitta

Elezioni menzognere, partiti fuori dal tempo: è l’ora delle scelte radicali

6 ottobre 2022

La fine, stavolta, era nota. Chi ha corso per vincere (la destra) ha vinto, chi ha corso per non vincere (Partito democratico e possibili alleati) ha perso. Tutto come previsto, dunque, nelle elezioni politiche più scontate della storia recente, in virtù di un sistema elettorale non proporzionale e delle scelte compiute prima del voto (allearsi a destra, non allearsi nella non destra). Ora la parola la prenderanno i politologi (che passeranno in rassegna i flussi elettorali e i nuovi “colori” di città e Regioni) e gli editorialisti, che come al solito consiglieranno la linea politica ai vari leader di riferimento. Poi si insedierà il nuovo governo, che in Europa è già definito -seguendo gli standard internazionali- di estrema destra, invece del pudico e conciliante, nonché fuorviante, “centrodestra” in uso sui media italiani.

Poi c’è tutto il resto, ossia le cose più importanti, visto che queste surreali elezioni hanno eluso i temi cruciali del momento e del futuro più prossimo. Si è votato nel pieno di una guerra europea e nei giorni della sua escalation. Nessuno, in campagna elettorale, ne ha fatto davvero menzione ma mentre mettevamo le schede nelle urne, a Mosca, Kiev e Washington si discuteva e tuttora si discute, con sconcertante leggerezza, del possibile -se non probabile- uso di armi atomiche “tattiche” in Ucraina da parte di Vladimir Putin e del tipo di risposta che l’Occidente (cioè gli Stati Uniti) eventualmente sceglierà: una bomba “tattica” su una città russa o sulla capitale? Una bomba non tattica, o altro ancora? E mentre fingevamo di partecipare a una competizione (che, come detto, non c’è mai stata), tra cosiddetto centrodestra e cosiddetto centrosinistra, si contavano ancora morti e dispersi nell’alluvione delle Marche e scattavano in mezza Italia allarmi meteo sempre più allarmanti. Senza che, ovviamente, si parlasse davvero e seriamente di mitigazione degli effetti del disastro climatico in corso, del dissesto idrogeologico del Paese, dell’urgenza di riorganizzare la vita collettiva in modo da ridurre i consumi di energia, di suolo, di risorse scarse.

Possiamo dire, insomma, che abbiamo avuto elezioni menzognere (per il falso dibattito su una competizione che non c’è mai stata) e anche anacronistiche, poiché le questioni più pressanti e cruciali del nostro tempo ne sono rimaste incredibilmente fuori. Non c’è da sorprendersi, in questo quadro, se il numero degli astensionisti ha superato un terzo degli elettori, e nemmeno del successo di forze politiche che si rifanno al nazionalismo novecentesco, all’eterna fascinazione per il fascismo, a una vocazione identitaria vicina al suprematismo bianco statunitense: è il frutto, tutto ciò, del progressivo sgretolamento della cultura democratica, socialista e antifascista, minata al suo interno -ormai da un trentennio- dall’avvento dell’ideologia neoliberista. Nel rifiuto di un’analisi onesta della crisi profonda di un intero modello di sviluppo e di sistemi democratici che a quel modello hanno legato la propria sorte (vale ancora per tutti il motto di Margaret Thatcher “There is no alternative”, non ci sono alternative), la regressione verso una visione difensiva, suprematista e conservatrice del mondo non può essere una sorpresa.

Alcuni politologi già propongono una ridefinizione dello spazio politico istituzionale italiano ed europeo, secondo la quale ci sarebbero ormai tre poli: una destra neoliberista nazionalista con venature suprematiste (la destra al potere in Ungheria, Polonia e ora in Italia; il partito di Marine Le Pen in Francia; i neofranchisti di Vox in Spagna); un centro ugualmente neoliberista ma europeista e con venature progressiste sui diritti individuali (il partito di Emmanuel Macron in Francia; il binomio Spd-Verdi in Germania; il cosiddetto centrosinistra in Italia); infine una sinistra erede delle idee socialiste e aperta al nuovo vento ecologista, con venature populiste (qui si portano le esperienze della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e degli spagnoli di Podemos, mentre in Italia si attende una possibile evoluzione del Movimento 5 stelle o almeno del suo elettorato, con nuove organizzazioni da costruire). Osservato sotto questa lente, l’esito elettorale del 25 settembre risulta in effetti più chiaro e può far pensare a un astensionismo giovanile e di sinistra dovuto alla sommatoria di una campagna elettorale fuori dal tempo presente e di una proposta politica -quanto al polo di sinistra- ancora opaca e insufficiente.

In un quadro così bloccato, torna la domanda di sempre, l’assillo di chi vuole dare un senso al proprio impegno civile e politico guardando a un orizzonte di giustizia sociale e alle future generazione; la domanda è: che fare? La risposta è semplice a ardua allo stesso tempo: quello che si è sempre fatto, ma con più forza, con più lungimiranza, con l’urgenza imposta da avvenimenti sconvolgenti come la minaccia nucleare, l’annunciata recessione globale, gli effetti sempre più incombenti del disastro climatico: quindi studiare, organizzarsi, agire. È il tempo, questo, delle scelte radicali; è l’ora di mettere in discussione il modello di sviluppo e i sistemi politici che lo sostengono, avviati -lo abbiamo visto- verso una regressione illiberale; è l’ora di pretendere dagli apparenti padroni della storia -potenziali apprendisti stregoni- di indicare vie di uscita dalla guerra in Ucraina prima che sia troppo tardi (c’è sempre una via d’uscita ed è incredibile che le diplomazie e le istituzioni sovranazionali siano state messe in un canto); è l’ora di mettere la giustizia climatica, che è anche giustizia sociale globale, al centro delle scena, politicizzando l’ondata ecologista, rimasta finora sulla superficie delle cose; è l’ora di impegnarsi, di contestare e partecipare, è l’ora di organizzarsi avendo come orizzonte una trasformazione profonda dei modi di produrre, di consumare, di vivere, di stare insieme e una conseguente, altrettanto profonda trasformazione di sistemi politici che si stanno rivelando obsoleti, incapaci di affrontare le sfide del nostro tempo, se non proponendo illusorie scorciatoie destinate a moltiplicare ingiustizie, sopraffazioni e guerre.

È una sfida enorme, ma non deve spaventare: cambiare il corso apparentemente ineluttabile della storia si può, è già successo e può accadere di nuovo.

Lorenzo Guadagnucci (da Altreconomia.it)

Ma chi ha letto davvero Gino Strada?

14 agosto 2022

Un anno fa – il 13 agosto 2021 – moriva Gino Strada e il pensiero corre inevitabilmente al suo magistero di medico e uomo contro la guerra. Tanti lo citano, molti lo evocano, e il suo libro uscito postumoUna persona alla volta (Feltrinelli) – resta fra i più venduti degli ultimi mesi, nonostante un battage bellicista di tutti i principali media dopo l’invasione russa dell’Ucraina; un libro che ora viene addirittura proposto e promosso da una testata (il quotidiano la Repubblica) che di quel battage bellicista è stato fra i protagonisti, con punte davvero imbarazzanti, come l’attacco diretto e delegittimante al pacifismo e ai suoi interpreti.

Chi era dunque Gino Strada? E quali erano le sue persuasioni? Proprio qualche passaggio di Una persona alla volta ci aiuta a capirlo. Intanto il pacifismo. Che cosa intendiamo per pacifismo? Difficile dare una risposta netta: sia perché esistono molti pacifismi (per esempio quello nonviolento, quello di derivazione religiosa, il pacifismo internazionalista eccetera), sia perché si dichiarano pacifisti anche molti sostenitori di interventi armati, magari in nome di una guerra definita giusta. E allora, se vogliamo dare a Gino Strada quello che è di Gino Strada dobbiamo accettare le sue parole: “Il 7 ottobre 2001 (giorno dell’attacco statunitense all’Afghanistan, ndr) è stato il giorno in cui ho capito di non essere un pacifista, ma di essere semplicemente contro la guerra. (…) Dopo anni passati fra i conflitti mi sono scoperto saturo di atrocità, del rumore degli spari e delle bombe. E lì, in Afghanistan, dove avevo vissuto per tanti anni operando feriti, non ce l’ho fatta più a sopportare l’idea di una nuova guerra. Così alla vigilia di un’altra ondata di sofferenza e di morte ho detto il mio ‘no’: basta con la guerra, basta uccidere mutilare infliggere atroci sofferenze ad altri esseri umani”.

Come si vede, la posizione del fondatore di Emergency non si presta a equivoci, non può essere evocata e tanto meno utilizzata per legittimare né interventi armati né opzioni militari di qualsivoglia natura; il rifiuto della guerra è pieno. Ma, attenzione, non è impolitico, non è un appello ai buoni sentimenti, né una resa all’uso della forza (per esempio di fronte a un’aggressione militare). Strada non è uno sciocco, tutt’altro, ma è un uomo che ha sviluppato una profonda riflessione sulla guerra, a partire da un’esperienza diretta durata decenni. E forse non è un caso che il suo rifiuto della guerra somigli così tanto al rifiuto che ispirò l’azione dei partigiani, degli antifascisti, degli intellettuali usciti dai disastri della prima metà del Novecento – con le due guerre mondiali – nel costruire un nuovo ordine internazionale e nel concepire costituzioni fortemente pacifiste (nasca da lì, dall’esperienza diretta della guerra, anche l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che “ripudia” e non semplicemente rifiuta la guerra).

Questo insieme teorico e normativo – il rigetto della guerra, la costruzione di istituzioni sovranazionali capaci di prevenire la guerra e risolvere i conflitti senza l’impiego di armi letali, a cominciare dall’Onu – è ciò che Strada professa. Non c’è spazio, nella sua visione, per guerre definite giuste. Gino Strada si rifà al Manifesto del 1955 firmato dal filosofo Bertrand Russell e dallo scienziato Albert Einstein, nel quale si diceva fra l’altro: “Questo è dunque il dilemma che vi sottoponiamo, crudo, spaventoso e ineludibile. Dobbiamo porre fine alla razza umana, o deve l’umanità rinunciare alla guerra?”. Questo è il punto di vista di Gino Strada: “La guerra”, scrive, “non si  può umanizzare. Non si può renderla meno pericolosa, crudele e folle, meno omicida e meno suicida. La guerra si può solo abolire”. Non era un illuso, Strada, ma un attivista calato nel suo tempo, animato da un’ispirazione forte, da un’utopia concreta che gli faceva da guida: “La partica della guerra è una situazione di fatto, non una necessità, e per cambiare questa situazione di fatto dobbiamo imparare a pensare in modo diverso“.

Strada era cosciente che l’opzione guerra è nel mondo di oggi “la prima opzione”, come vediamo bene in Ucraina e in numerosi altri luoghi del pianeta. E tuttavia sfidava questa opzione non solo sul piano etico-politico, ma anche su quello pratico. In un capitolo del suo libro – La guerra non funziona – riporta le domande che tutti conosciamo e che vengono ripetute per giustificare, difendere, invocare le guerre: se un dittatore opprime il suo popolo, dobbiamo lasciarlo fare? Se c’è un genocidio, non dovremmo intervenire anche con l’uso della forza? E così via.  “Queste domande, però”, scrive Gino Strada, “hanno già ricevuto una risposta. (…) La risposta è stata quasi sempre la guerra. (…) Chi ha deriso il movimento per la pace accusandolo di non sapere offrire alternative, non si è mai soffermato a riflettere sulle conseguenze delle sue scelte. E allora, verrebbe da chiedere: com’è andata con la scelta della guerra in tutti questi anni? Come vivono oggi le persone in Afghanistan e in Iraq, in Libia e in Siria e in tutti quei luoghi dalla violenza? (…) Dopo tutti questi anni di guerra, la sola realtà, la sola verità inoppugnabile è che quello strumento, quella scelta, ancora una volta non ha funzionato“.

Ecco qual era il pensiero di Gino Strada, quale il suo impegno: “L’abolizione della guerra è un progetto indispensabile e urgente se vogliamo che l’avventura umana continui”. In questi giorni nei quali il nome del medico di Emergency è spesso citato, viene da chiedersi se chi lo cita e lo evoca, abbia davvero letto Gino Strada, se davvero condivida le sue motivate ma scomode posizioni. Domande e posizioni che potremmo e dovremmo applicare anche all’attuale, vicina guerra in Ucraina, che Strada non ha visto nascere. Si preferisce, di solito, evitare ogni riferimento, per non correre il rischio di mettere in mostra la palese contraddizione, e così  si cita Strada, ci si sente con lui dalla parte giusta, magari ci si dichiara pacifisti, ma non si arriva a trarne le dovute conseguenze e così si finisce per pretendere di  stare con Strada ma anche con la cobelligeranza in Ucraina, senza nemmeno domandarsi come sta andando quella guerra, e meno che meno impegnandosi per trovare altre vie alla soluzione del conflitto, facendosi ispirare dall’utopia concreta indicata in Una persona alla volta e nel pensiero maturato lungo una vita, ossia  l’abolizione delle guerre, da non prendere come un sogno, bensì come un progetto, che quindi comporta impegno, azione, costruzione.

Le alternative alla risposta armata ci sono sempre e vanno tutte esplorate e percorse, perché la guerra non è mai una soluzione: questo ci ha detto Gino Strada, chiedendo a ciascuno di noi un impegno concreto, senza riserve, senza ambiguità. 

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