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Ribellarsi alla cultura oppio del popolo

20 agosto 2019

Goffredo Fofi è un maestro. Le sue recensioni settimanali su Avvenire e Internazionale, la sua rivista Gli asini e ovviamente i suoi libri sono letture imprescindibili per chi voglia orientarsi nella produzione culturale a partire da un assunto molto preciso: la necessità di non accettare il presente così com’è. Viviamo in una società profondamente ingiusta, siamo una specie addirittura in via di estinzione a causa della catastrofe climatica in corso e tuttavia prevale nel mondo, nel nostro mondo, una sorta di rassegnata assuefazione. Siamo come anestetizzati. Perché non si intravedono fronti di lotta e di impegno adeguati alla gravità del momento?

Nel suo nuovo libro “L’oppio del popolo” (Elèuthera, 166 pagine) Fofi sostiene una tesi radicale: si è affermato nella società un sistema culturale, cui Fofi stesso appartiene, sia pure da refrattario, che svolge una precisa funzione: manipolare le coscienze, “imponendo il consumo di beni e modelli, di merci e di idee-merce”. E ancora: “Senso di colpa e vergogna per come va il mondo e per la nostra incapacità di reagire dovrebbero essere un dato di fatto collettivo, di massa”. Così non è, sostiene Fofi, perché la cultura ha smesso d’essere pensiero critico e strumento di conoscenza e azione. E’ semmai l’opposto, un enorme apparato al servizio del potere economico-finanziario e politico, formato da migliaia e migliaia di funzionari e operai arruolati da un’industria in continua espansione, tutti impegnati a parlare, scrivere, filmare, cantare, reclamizzare in un festival infinito di supposta creatività con il preciso scopo di “farci accettare l’inaccettabile, tollerare l’intollerabile, dimenticare la realtà”.

La cultura, dice Fofi, è un crocevia ambiguo: da un lato strumento del potere, usato per illudere la gente di pensare con la propria testa e per fiaccare sul nascere qualsiasi ipotesi di ribellione, dall’altra premessa necessaria – la cultura autentica, formatrice di spirito critico e veicolo di conoscenza – per ipotizzare la necessaria, non più rinviabile rivolta.

Fofi, capitolo dopo capitolo, mette in guardia contro i “tranquillizzatori sociali” che si nascondono dietro scrittori, registi, intellettuali vari e non risparmia critiche sferzanti al decadente cinema italiano, alla classe degli insegnanti e dei pedagogisti un tempo palestra della ricerca e dell’apertura, ai troppi e narcisisti scrittori (anzi scriventi, secondo la definizione di Elsa Morante) che pubblicano troppi libri, per lo più inutili.

E tuttavia Fofi è un maestro, un non-rassegnato e non-complice, e riconosce che nonostante tutto, in questo paese del conformismo e dell’accettazione, della sottomissione al potere e al mercato, “si scoprono continuamente persone belle, generose, attive e in vario modo responsabili di fronte al contesto in cui si muovono. Piccoli gruppi, che si occupano in modo sensibile e tollerante del prossimo che non ce la fa, del bene davvero comune…” Fofi fa alcuni nomi di registi, scrittori, giornalisti non assorbiti dal sistema: Marcello, Minervini, Rohrwacher e altri per il cinema; Mattotti, Negrin, Zerocalcare e altri ancora nel romanzo a fumetti; Lagioia, Cognetti, Terranova, Siti, Mari, Giacopini e altri fra i narratori; il compianto Alessandro Leogrande e Benedetta Tobagi fra gli autori di inchieste destinate a durare. Sono indicazioni di rotta, guide utili al lettore e spettatore esigente, preziose come ben sa chi segua gli interventi settimanali su Avvenire e Internazionale.

Ma la questione chiave è un’altra e Fofi l’affronta lungo tutto il libro per poi approfondirla nell’ultimo capitolo: “Che fare?”. Per Fofi la conoscenza, il sapere, la cultura autentica hanno senso se conducono all’azione e alla tensione verso il cambiamento di questo mondo insopportabile che siamo chiamati a vivere. La sua risposta al “che fare?” è la disobbedienza civile, nella migliore tradizione della nonviolenza, fra Gandhi e Capitini e Dolci.

Disobbedienza civile intesa come ricerca dei nuovi, essenziali fronti di impegno, come formazione di “gruppi o movimenti” in grado di “accogliere e indirizzare ques giovani intenzionati e essere fino in fondo positivamente attivi nelle novità dell’epoca”. Si tratta, dice Fofi, di “entrare in un mondo nuovo rifiutandone le ingiustizie e le prepotenze“, d’essere “avanguardie (ebbene sì!) di una nuova umanità e di una nuova convivenza, tra gli uomini e con le creature, tra l’ideale cristiano e quello socialista (che per me sono assai vicini), e quello, infine, ecologico!”

Fofi si rivolge ai persuasi (per usare un termine di Aldo Capitini) oggi smarriti e disuniti e li invita a non temere d’essere minoranza, perché questa è la condizione di partenza; li sfida anzi a pensare in grande, a un nuovo sistema di “economia austera e solidale”, all’attenzione per gli “umiliati e offesi”, al bisogno di verità e di ribellione che cova sotto la cenere. Un bisogno che va dissotterato e declinato nella forma del “noi”, seguendo la dimenticata lezione dell’amato Albert Camus: “Mi rivolto, dunque siamo”.

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