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Il confine che “profughizza” il mondo

8 luglio 2019

L’anno scorso don Massimo Biancalani, parroco a Vicofaro in provincia di Pistoia, entrò nel mirino dei militanti della xenofobia per una fotografia postata sui social network. Lo scatto ritraeva un gruppo di ragazzi richiedenti asilo, ospiti della parrocchia, durante una giornata trascorsa in piscina. I ragazzi in quella foto sorridevano, parevano distesi, quasi felici. Tanto bastò per scatenare i professionisti dell’odio in rete: che razza di profughi erano mai quelli, sorridenti e allegri? E come osava il prete provocare mostrando un’immagine così? Per la parrocchia di Vicofaro fu l’inizio di un calvario, fra messe presidiate dall’estrema destra, sospetti diffusi fin dentro le istituzioni, ostacoli e vessazioni fin lì sconosciuti.ko.jpg

Don Biancalani, inevitabilmente, è diventato anche un simbolo dell’Italia democratica e aperta al mondo, ma il punto è che tutto è nato da una violazione di una regola non scritta: la profughizzazione del profugo. Chi fugge dal suo paese e cerca riparo altrove è chiamato a rispettare un cliché: dev’essere sofferente, sottomesso, privo di volontà propria. Altro che bagni in piscina.
L’episodio di Vicofaro viene in mente leggendo “Io sono confine” di Shahram Khosravi (Elèuthera, pagg. 238, 18 euro), una straordinaria opera di auto-etnografia, cioè il racconto-riflessione dell’autore, emigrante dall’Iran, violatore di confini, infine profugo in Svezia, ora professore di Antropologia all’Università di Stoccolma. E’ più di un romanzo, questo libro, e più di un saggio al tempo stesso: le sobrie citazioni di autori e libri accompagnano la narrazione, senza intralciarla e tanto meno snaturarla, in una singolare fusione di racconto-verità e approfondimento sociologico.
Khosravi, fra tante altre cose, insiste sul confine che attraversa la mente delle persone, dicendo che è il confine più pericoloso, perché inchioda le persone dentro rigidi modelli. E’ così che avviene  la trasformazione dello status di profugo da categoria giuridica a identità. “Il mio corpo – spiega Khosravi – veniva sottoposto a esami medici e io stesso venivo trattato a tutti gli effetti come un bambino incapace di decidere cosa è meglio per lui”. E’ il processo di “profughizzazione”, la costruzione del cliché della vittima, lo stereotipo che causa cortocircuiti come quello di Vicofaro. Dovremmo pensare alla “profughizzazione” ogni volta che i poteri pubblici immaginano soluzioni per il “problema migranti”: raramente la loro voce è presa in considerazione, raramente si considera che si tratta di persone in grado di prendere decisioni, esprimere volontà, collaborare alla ricerca di percorsi credibili di vita.
io-sono-confine-COVER__.jpg“Io sono confine” getta fasci di luce su tutte le zone d’ombra del percorso di emigrazione. Racconta i difficili momenti della partenza, le lacerazioni familiari, la scoperta delle zone grigie delle città in cui vivono gli aspiranti all’espatrio clandestino, la corruzione endemica delle guardie e dei funzionari di frontiera, la vita-non vita a volte lunga molti anni di chi attende la volta buona per tentare il passaggio di frontiera. Visto da vicino, anzi da dentro, il mondo dei profughi è assai diverso da quel che appare se osservato dall’esterno. Lo stesso concetto di “trafficanti di uomini” o di “coyotes” (come sono chiamati al confine Messico-Usa), è molto meno nitido di quanto sembra, dice Khosravi, che ha passato numerosi confini pagando la polizia, facendo carte false, affidandosi a passeurs, vivendo nei non-luoghi delle città – di solito vicino a stazioni e aeroporti – dove gli aspiranti all’emigrazione si raccolgono, sopravvivono, raccolgono informazioni, si procurano documenti falsi, tentano vie di passaggio.
Il racconto è appassionante e illuminante, pieno di sorprese e anche di dolore: dolore per chi non ce la fa, per chi resta per anni bloccato senza riuscire ad andare avanti e non potendo tornare indietro; dolore per la constatazione che il confine è una ghigliottina per le donne, obbligate pressoché ovunque a pagare il prezzo dello stupro (Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa ora deputato europeo, ha detto in una recente conferenza che tutte, tutte le donne da lui visitate in tanti anni di accoglienza dei profughi hanno subito violenza sessuale); sorpresa, ad esempio, per la descrizione di come cresce, in chi si muove, la vergogna per non avere i documenti a posto, tramite un meccanismo di interiorizzazione della disapprovazione sociale, disapprovazione ormai sfociata nella Fortezza Europa e in tutto il mondo ricco in un’aperta criminalizzazione della migrazione dai paesi poveri.
La storia di Khosravi è eccezionale per l’intera sua vicenda biografica e perché il profugo-antropologo è scampato miracolosamente alla morte: il serial killer svedese passato alla storia come “uomo laser” gli sparò in faccia, in quanto studente straniero (la storia del killer è raccontata nel bellissimo “L’uomo laser” di Gellert Tamas, pubblicato da Iperborea nel 2012). Shahram è sopravvissuto anche a questo e ha potuto proseguire la sua avventura umana. Un importante approdo della sua riflessione riguarda il ruolo stesso dei confini nella società moderna: gli Stati nazione sono tuttora la forma dominante di organizzazione sociale e stanno definendo una nuova forma di cittadinanza attraverso la “criminalizzazione dei non-cittadini indesiderati”.

Si va definendo così una cittadinanza ideale, del tutto irrealistica e fittizia (un inesistente mondo di autoctoni culturalmente omogeneo) ma che mette a nudo la fragilità di tutto il sistema dei diritti umani e quindi la debolezza delle democrazie contemporanee. Le “vite esposte alla morte”, quelle dell’umanità in viaggio, servono a circoscrivere il campo dei meritevoli di diritti e a svuotare dall’interno il principio di uguaglianza. Potremmo dire che stiamo assistendo a una profughizzazione delle democrazie occidentali, cioè a una loro limitazione per mezzo della criminalizzazione di chi tenta di emigrare dai paesi poveri a quelli ricchi.
Khosravi sembra in sintonia con Donatella Di Cesare quando la filosofa – in “Stranieri residenti” (Bollati Boringhieri 2017) – sostiene che lo “jus migrandi”, il diritto di emigrare, è la nuova frontiera dei diritti del nostro secolo, come un tempo l’abolizione della schiavitù fu la frontiera dell’idea di uguaglianza fra le persone. Khosravi scrive che “guardare la storia dal punto di vista degli sconfitti predispone a una filosofia in grado di organizzare il pessimismo” e conclude così: “Anche questo libro si è mosso lungo le linee tracciate dal pessimismo organizzato, evocando il ricordo dei miei antenati sconfitti: gli apolidi, gli schiavi, gli ebrei, i palestinesi, i rom, i rifugiati, i migranti e tutti coloro che sono stati costretti a essere il confine”.

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